Corte dei Conti, Prima Sezione Centrale d’Appello, sentenza n. 78 del 28 febbraio 2022
Con la sentenza n. 36/2020 la Sezione giurisdizionale per il Trentino Alto Adige – sede di Trento, disattesa l’eccezione di prescrizione sollevata dal convenuto, accoglieva la domanda proposta dalla Procura regionale nei confronti dell’arch. X, professore ordinario presso l’Università degli studi di Trento, e lo condannava al pagamento, in favore della predetta Università, della somma complessiva di € 288.417,39.
L’ammontare del risarcimento comprende due poste di danno erariale: la prima, di € 143.452,51, è relativa ai compensi percepiti in costanza di impiego ed in regime di tempo pieno, nell’esercizio dell’attività libero professionale non autorizzata dall’Ateneo, mentre la seconda posta di danno, pari ad € 144.964,88, è riferita al distoglimento di energie lavorative e ai maggiori emolumenti stipendiali indebitamente percepiti dal convenuto per l’attività di docente a tempo pieno rispetto a quelli che sarebbero spettati per l’attività a tempo definito.
Non è revocabile in dubbio che il prof. X abbia altresì violato, con l’esercizio della suddetta attività libero professionale, l’obbligo, sancito dal medesimo comma 7 del predetto articolo, di riversare al proprio datore di lavoro pubblico quanto percepito per l’espletamento dell’attività non autorizzata.
Secondo il costante indirizzo della Suprema Corte (ex multis, SS.UU., ord. n. 17124/2019) l’obbligo di versamento, sancito dal succitato comma 7, si configura come una particolare sanzione ex lege volta a rafforzare la fedeltà del dipendente pubblico. La natura sanzionatoria sarebbe “ancor più evidente se si considera il carattere disincentivante proprio della sanzione, desumibile dalla coincidenza dell’entità del versamento con quella delle somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente, affinchè questi sappia in partenza di non poter trattenere vantaggio alcuno da prestazioni che si appresti a svolgere in violazione del dovere di fedeltà”.
In senso contrario si sono espresse le Sezioni Riunite di questa Corte (sentenza n.26/2019/QM/PROC del 10 luglio 2019), cui il Collegio aderisce, secondo cui il versamento obbligatorio previsto dal comma 7 dell’art. 53 D. Lgs. 165/2001 “costituisce una reintegrazione non per la violazione del divieto di svolgimento dell’incarico non autorizzato da parte dell’amministrazione, ma per una mancata entrata, per una reale diminuzione patrimoniale per l’amministrazione di appartenenza del dipendente, la quale viene privata di un’entrata vincolata e da imputarsi al fondo perequativo per i dipendenti…”.
La giurisprudenza contabile, soprattutto delle sezioni di appello, pur riconoscendo che l’obbligo di riversamento di cui all’art. 53, comma 7 bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001 non esclude affatto la coesistenza di un diverso danno erariale sempre derivato dall’espletamento di attività incompatibili o, comunque, esercitate in assenza di autorizzazione della Amministrazione di appartenenza, esclude, tuttavia, che in caso di esercizio di attività incompatibile o resa in assenza della prevista autorizzazione possa configurarsi automaticamente un danno erariale per la violazione del sinallagma contrattuale (ex multis, Sez. 1^ app., nn. 56, 188 e 192 del 2018, Sez. 2^ app., n. 138/2020; Sez. 3^ app., n. 7/2020), richiedendosi comunque la prova del danno nella sua esistenza in concreto e dell’elemento psicologico.
Nel caso di specie, il Procuratore regionale non ha provato che il prof. X aveva sottratto energie lavorative all’amministrazione datrice di lavoro, né che la prestazione universitaria del medesimo sia stata carente, con grave compromissione del rapporto sinallagmatico.
In conclusione, in riforma della sentenza appellata, il Collegio cassa la condanna per la posta di danno da distoglimento di energie lavorative di € 144.964,88 e ridetermina l’importo da risarcire in € 143.452,51