L’occultamento doloso del danno coincide con l’omissione di atti dovuti

Corte dei Conti, Prima Sezione Centrale d’Appello, sentenza n 49 del 6 febbraio 2023

L’occultamento doloso richiede un “quid pluris” commissivo. L’ulteriore condotta dolosa del debitore – volta ad occultare il fatto pregiudizievole – può, tuttavia, estrinsecarsi anche in una condotta omissiva, come è accaduto nel caso di specie, quando riguardi atti dovuti, ai quali, cioè, il debitore sia tenuto per legge. Nel caso in esame, il Prof. X ha assunto un comportamento semplicemente omissivo, tralasciando di compiere un atto dovuto, prescritto per legge nel momento in cui ha omesso di comunicare lo svolgimento di attività, soggette a preventiva comunicazione o autorizzazione.
Sul punto, la giurisprudenza contabile è univoca nel ritenere che in presenza di un obbligo giuridico di informare (espressione anche dei generali obblighi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.) e, quindi, di attivarsi, si è in presenza di un’omissione di atti dovuti (Cdc, Sez. I App. n. 173/2018; Cass. SS.UU n. 22711 del 11.09.2019). Orbene, nel caso di specie, è provato che il docente abbia esercitato attività extraistituzionale senza la prescritta autorizzazione e, comunque, in assenza della preventiva istanza, sì da potersi ritenere che lo stesso abbia consapevolmente omesso di informare l’Ateneo di appartenenza circa la natura e la tipologia di prestazioni rese in favore di soggetti terzi.
Contrariamente a quanto affermato nella sentenza di primo grado, in presenza di occultamento doloso del danno, l’esordio del termine di prescrizione coincide con la trasmissione alla Procura regionale della notizia di danno. Neanche può assumere qualche rilevanza, ai fini della scoperta del danno da parte della P.A, la circostanza addotta dal docente, secondo cui i compensi venivano regolarmente dichiarati ai fini fiscali, trattandosi di adempimento degli obblighi fiscali-tributari, incombenti per legge sul contribuente nel diverso rapporto con l’Amministrazione finanziaria.
Preme, inoltre, evidenziare come a tutti i docenti (sia a tempo pieno che definito) già all’epoca dei fatti in contestazione era vietato svolgere attività commerciali e industriali; il divieto, stabilito dall’art. 60 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, poi, confermato, in materia di ordinamento universitario, dall’art. 11 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, a mente del quale sia il regime “a tempo pieno” che quello “a tempo definito” sono incompatibili con l’esercizio del commercio e dell’industria.
L’apertura della partita Iva da parte del docente rappresenta un ulteriore indice significativo, atteso che secondo quanto previsto dall’art. 35, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (recante “Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto”), essa viene aperta a seguito della dichiarazione di inizio attività che deve essere fatta da parte di chi intraprenda “l’esercizio di un’impresa, arte o professione”, per tale dovendosi intendere, secondo quanto previsto dall’art. 5 9 dello stesso dPR n. 633/1972, “l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse”.
Quanto alle singole contestazioni, è bene ricordare che l’art. 6 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 stabilisce, al comma 9, che l’esercizio di attività libero-professionale è incompatibile con il regime di tempo pieno. La ratio del divieto in esame va rinvenuta nel principio costituzionale sancito all’art. 98 Cost. (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”), che introduce il vincolo inderogabile di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico, per preservare le energie del lavoratore e tutelare il buon andamento della p.a. che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.
Ne consegue che i professori a “tempo pieno” non possono svolgere in maniera abituale attività libero professionale. Valgono, in proposito, le considerazioni già espresse dalla giurisprudenza contabile e da questa stessa Sezione di appello, secondo cui “per i professori a tempo pieno, rimane il divieto di espletamento di attività libero professionale in assoluto, se svolta con continuità, e la necessità di previa autorizzazione dell’Ateneo di appartenenza se svolta occasionalmente … Diversamente opinando (…), il divieto sarebbe facilmente aggirabile, per i professori a tempo pieno, mediante l’indicazione come mere consulenze incarichi che, invece, hanno natura libero professionale” (Sez. I App. sent. n. 80/2017).

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