La norma del CCNL che discrimina i “precari” deve essere disapplicata, perchè in contrasto con le norme UE

Corte di Cassazione, ordinanza n. 1065 del 10 gennaio 2024

L’art. 12, comma 3, lett. a) del CCNL Dirigenza medica, 2° biennio economico, dell’8.6.2000, ai fini della maggiorazione della retribuzione di posizione valorizza solo l’anzianità di servizio prestata con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed opera un’oggettiva discriminazione in danno del dirigente assunto a tempo determinato, la cui anzianità non riceve valorizzazione alcuna. La disposizione contrattuale, pertanto, deve essere in parte qua disapplicata, perché, come più volte affermato da questa Corte, la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicché la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C- 268/06, I.; 13.9.2007, causa C-307/05, D.C.A.; 8.9.2011, causa C-177/10 R.S.)» (Cass. n. 7586/2022).

In definitiva, con riguardo alla retribuzione di posizione, l’incompatibilità con l’Accordo quadro, e quindi con la Direttiva, di una clausola contrattuale che vieta in modo assoluto di tenere conto dell’anzianità di servizio maturata con i contratti a tempo determinato e la conseguente necessità di disapplicare quella clausola sono del tutto evidenti.

Per quanto riguarda, invece, l’indennità di esclusività, l’art. 12, comma 3, lett. b, del CCNL, prevede che si tenga conto anche dell’anzianità maturata con rapporti di lavoro a tempo determinato, ma richiede che il servizio sia prestato «senza soluzione di continuità».

Tuttavia, l’assenza di soluzione di continuità deve essere interpretata nei termini già indicati dalla citata Cass. n. 7440/2018, secondo cui «non costituisce “soluzione di continuità” la presenza di intervalli temporali tra i diversi contratti a termine che siano conformi a quelli richiesti dalla disciplina tempo per tempo vigente, né tale “soluzione di continuità” è ravvisabile laddove gli intervalli siano insussistenti o minimi e la parte interessata rinunci a far valere la prevista nullità».

In altri termini, a parte il caso di successione di contratti aventi ad oggetto profili e mansioni differenti, si può avere «soluzione di continuità» soltanto quando tra i diversi contratti a termine, o tra l’ultimo contratto a termine e l’assunzione a tempo indeterminato, sia passato un lasso di tempo tale da non potersi considerare l’esperienza professionale maturata nei periodi precedenti utile in funzione della capacità di svolgere nel modo migliore le mansioni assegnate con il contratto a tempo indeterminato.

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