Un’impiegata di una RSA contrae il COVID-19. Il datore di lavoro e l’INAIL sono condannati a risarcire oltre 40.000 euro per non avere adottato subito le misure contro le malattie infettive

Tribunale di Benevento, sentenza n. 51 del 21 gennaio 2024

Un’impiegata amministrativa di una RSA aveva contratto il COVID-19.

Il datore di lavoro aveva denunciato l’infortunio all’ INAIL, il quale le aveva corrisposto l’indennizzo per inabilità temporanea assoluta ed erogato la complessiva somma di € 6.860,30.

In secondo luogo, la lavoratrice ha avanzato una richiesta, nei confronti del datore di lavoro, di pagamento a titolo di danno cd. differenziale, sul presupposto che la responsabilità sia da ascriversi all’omissione, da parte della delle cautele necessarie per prevenire l’evento.

Il Giudice ha preliminarmente ricordato che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. non è di carattere oggettivo, ma deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.

Ancora, si è precisato che nel caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, cd. nominate, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore; viceversa, ove le misure di sicurezza debbano essere ricavate dall’art. 2087 c.c., cd. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione (Cass. Sez. L, Sentenza n. 10319/2017)

Invero, la parte datoriale non ha prodotto alcuna documentazione utile a dimostrare l’approvvigionamento di mascherine chirurgiche o FFP2 nel periodo in questione, sebbene il teste abbia dichiarato “abbiamo le fatture…”. La resistente ha infatti prodotto esclusivamente la stampa di due prospetti di propria unilaterale formazione, da cui, comunque, emergono numeri alquanto ridotti di mascherine acquistate. Non appare pertanto credibile che numeri siffatti consentissero la fornitura quotidiana di mascherine a tutto il personale impiegato presso la struttura (su turni che coprono l’arco delle 24 ore).

Ancora, la settimana prima del trasferimento del paziente – poi deceduto con Covid – all’ospedale , avvenuto il 23 marzo, altri pazienti (tra 5 e 10) avevano iniziato a manifestare sintomi febbrili, e ciononostante non vi era stato alcuno spostamento/isolamento dei pazienti sintomatici, né gli stessi erano stati dotati di mascherine.

Dunque, sebbene la ricorrente non svolgesse mansioni di front office e non avesse contatti con l’utenza o con il pubblico, era comunque esposta a contatti con il personale della struttura – operatori, medici e infermieri – in ragione delle mansioni disimpegnate e della collocazione fisica all’interno di un open space dove operavano tutti gli addetti a mansioni amministrative. Tali contatti, anche volendoli considerare ridotti a ipotesi “eccezionali” – cosa che la prova per testi non consente di affermare con certezza – erano pur sempre presenti, e avevano luogo all’interno di una struttura sanitaria dove, come visto, vi erano diversi pazienti sintomatici,

Risulta pertanto assolto da parte della ricorrente l’onere di dimostrare tanto il danno, quanto la nocività dell’ambiente lavorativo e il nesso di causalità fra l’uno e l’altra.

Quanto all’adozione delle cautele necessarie, non risulta che la società abbia pienamente rispettato le indicazioni fornite dal rapporto ISS 2/2020 aggiornato, che prevedevano per gli operatori (compresi gli addetti alle pulizie) a contatto con pazienti affetti da Covid o con sintomi respiratori, fra le altre precauzioni, l’uso di mascherine (chirurgiche o FFP2 a seconda del tipo di contatto/attività assistenziale) e, per i pazienti con sintomi respiratori, la mascherina chirurgica se tollerata.

Ebbene, all’interno di un quadro in cui era percepibile il rischio di una diffusione del contagio all’interno della struttura, avrebbero dovuto essere adottate tali precauzioni standard, ben note anche in precedenza in quanto efficaci in generale per contenere la propagazione di virus che si trasmettono essenzialmente per via aerea e via droplet, nonché la fornitura di mascherine agli operatori e ai pazienti interessati: misure queste attuabili sulla base delle conoscenze scientifiche già a disposizione, e raccomandate da linee guida internazionali e da circolari ministeriali precedenti l’epidemia. In sostanza, come sintetizzato dal P.M. nella richiesta di archiviazione, “la maggior parte delle regole precauzionali applicabili nel momento storico in cui avvenivano in fatti … erano state dettate da tempo (2007 e 2010), e poi ribadite nel 2020, per fronteggiare il rischio di diffusione di generiche malattie infettive: in sostanza, indipendentemente dalla novità del coronavirus, le misure da adottare in contesti dello stesso tipo erano già conosciuti (sic) e conoscibili, e quindi applicabili” 

Tuttavia, non è emerso che tali precauzioni abbiano trovato tempestiva attuazione, essendo state implementate solo verso la fine del mese di marzo

Ne discende, per quanto concerne l’ INAIL, che lo stesso va condannato a corrispondere all’istante un indennizzo per danno biologico commisurato a un grado di menomazione dell’integrità psico-fisica del 9%, pari a € 11.638,53, nonché al pagamento dell’indennità per inabilità temporanea assoluta, nella misura di legge.

Per il danno differenziale, premesso e ribadito che spettano al giudice l’individuazione delle voci di danno patrimoniale e non patrimoniale che risultino effettivamente risarcibili e provate e la relativa quantificazione, anche attraverso il ricorso a tabelle giurisprudenziali, si osserva che, nel caso in esame, la percentuale di menomazione permanente dell’integrità psico-fisica da cui prendere le mosse per la quantificazione del pregiudizio risarcibile è quella relativa al danno biologico, indicato dal CTU nella misura del 12%. 

Pertanto, in assenza di qualsivoglia elemento che consenta di presumere e di quantificare l’esistenza di un danno da sofferenza soggettiva, aggiuntivo rispetto al danno non patrimoniale conseguente alla lesione permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali che in quelli relazionali (danno biologico), si ritiene equo assumere quale parametro il solo punto base per il danno biologico, pervenendo, sulla scorta delle tabelle di Milano, a un importo complessivo di € 22.378,00

Il giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, così provvede: 

1) accerta e dichiara il diritto della ricorrente di percepire l’indennità di inabilità temporanea assoluta,  per l’effetto condanna l’ al pagamento della relativa indennità, nella misura di legge, per il periodo 10.01.2021-25.04.2021; 

2) accerta e dichiara il diritto della ricorrente di percepire, in seguito all’evento denunciato in data , un indennizzo in conto capitale parametrato a un grado di menomazione dell’integrità psico-fisica pari al 9%, e per l’effetto condanna l’ a corrispondere alla ricorrente l’importo di € 11.638,53, oltre interessi legali come per legge fino al saldo; 

3) accertata la responsabilità della nella causazione dell’evento lesivo, condanna la a corrispondere alla ricorrente, a titolo di risarcimento del danno differenziale, l’importo di € 27.222,97.

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