Il rifiuto del lavoratore del trasferimento, deve essere proporzionato all’entità dell’inadempimento del datore

Corte di Cassazione, sentenza n. 11408 del 11 maggio 2018

Ritiene il Collegio che la esigenza di ricondurre ad un discorso sistematico ed unitario le affermazioni che si leggono nella giurisprudenza di legittimità sul tema del rifiuto del lavoratore di prendere servizio presso la sede di destinazione, allegando la illegittimità del provvedimento datoriale di trasferimento, imponga di muovere dalla pacifica configurazione del rapporto di lavoro subordinato quale rapporto a prestazioni corrispettive, connotato dalla previsione di una serie articolata di obblighi a carico di entrambe le parti, i quali si affiancano alle obbligazioni principali scaturenti dal contratto di lavoro, rappresentate, per il lavoratore, dalla prestazione lavorativa e, per il datore di lavoro, dal pagamento della retribuzione (in tema di obblighi ulteriori delle parti, in via esemplificativa, è sufficiente ricordare, quanto al datore di lavoro, l’obbligo di protezione ex art. 2087 cod. civ. e, quanto al lavoratore, l’obbligo di fedeltà ex art. 2105 cod. civ.). Ulteriore peculiarità del rapporto di lavoro, non direttamente’discendente dalla natura corrispettiva delle obbligazioni reciproche ma comunque destinata ad influenzare la verifica del sinallagma contrattuale, è costituita dal diretto coinvolgimento, nella esecuzione del contratto, della persona del lavoratore, con conseguente potenziale ricaduta dei provvedimenti datoriali su aspetti non meramente patrimoniali ma connessi a fondamentali esigenze di vita del prestatore di lavoro, oggetto di protezione, anche costituzionale, da parte dell’ordinamento.
La giurisprudenza di questa Corte, con riguardo ai rapporti sinallagmatici o di scambio, ha precisato che il principio di corrispettività non richiede – al di fuori dei limiti posti da disposizioni legali o collettive, e segnatamente, nel caso di rapporto di lavoro subordinato, dall’art. 36 Cost. – che ad ogni singola prestazione o modalità della prestazione di una parte corrisponda una distinta controprestazione o comunque una qualche forma di remunerazione, bensì opera, ove la legge o l’autonomia privata non dispongano diversamente, tra gli insiemi di obblighi assunti da ciascuna delle parti, assicurando nel suo complesso l’equilibrio contrattuale, salva la possibile diversa rilevanza delle singole prestazioni a specifici effetti (Cass. 08/11/1997 n. 11003) .
In coerenza con tale indicazione è stato ritenuto che il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum – alla quale è riconducibile il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione fondata sulla allegazione dell’inadempimento, anche parziale, del datore di lavoro – deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse; pertanto, qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, comma 2, cod. civ. (v., tra le altre, Cass. 29/02/2016 n. 3959; Cass. 16/05/2006 n. 11430; Cass. 03/07/2000 n. 8880;). In altri termini, secondo quanto anche ritenuto da dottrina consolidata, con il richiamo alla non contrarietà alla buona fede, il secondo comma dell’art. 1460 cod. civ. intende fondamentalmente esprimere il principio per cui ci deve essere equivalenza tra l’inadempimento altrui e il rifiuto a rendere la propria prestazione il quale, deve essere successivo e causalmente giustificato dall’inadempimento della controparte. Il parametro della non contrarietà alla buona fede del rifiuto ad adempiere va riscontrato in termini oggettivi, a prescindere dall’animus dell’autore del rifiuto, e costituisce espressione del principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto sancito dall’art. 1375 cod. civ. (v. tra le altre, Cass. 04/02/2009 n. 2720; Cass. 10/11/2003 n. 16822; Cass. 21/02/1983 n. 1308;)

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