L’attività commerciale è sempre vietata per i pubblici dipendenti, e quella professionale non occasionale è sempre vietata ai professori a tempo pieno

Corte dei conti, sezione giurisdizionale del Veneto, sentenza n. 16 del 24 marzo 2023

Le già sopra trascritte previsioni dell’art.53, comma 7 e 7 bis del d.lgs. n.165/2001 (quest’ultimo introdotto dall’art.1, comma 62, della legge n. 190/2012), operanti nella permanenza di divieti di cui all’art. 60 e seguenti 33 del D.P.R. n.3/1957 (per espresso richiamo contenuto nel comma 1, dello stesso art.53 citato), si inseriscono in un più vasto sistema, nel quale confluiscono, quanto alla specifica posizione dei docenti universitari, anche le previsioni degli artt. 11 e 12 del d.P.R. n.382/1980, e, da ultimo le disposizioni della legge n.240/2010.

La vasta giurisprudenza in materia, alla quale è sufficiente fare generico richiamo, ha ampiamente puntualizzato il differente assetto normativo in cui si trovano ad operare i docenti in regime di tempo pieno rispetto a quelli che optano per il tempo definito, evidenziando, anzitutto, che in entrambi i casi opera il generale divieto di svolgimento di attività commerciale, ma che, in ossequio a quanto previsto dall’art.53, comma 7 del D.lgs.n.165/2001, il docente universitario che opti per il regime del tempo pieno, a differenza di quello che opti per il tempo definito, debba munirsi di apposita autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza ai fini dello svolgimento – occasionale – di attività extra- istituzionale.

Ciò lascia impregiudicato il fatto che lo svolgimento – non occasionale – di attività professionale risulta comunque vietato, potendo essere consentito solo il compimento di quelle attività che, nel loro complesso, non finiscano per sfociare in incompatibile esercizio di una diversa professione autonoma, parallela allo svolgimento dell’attività di docente universitario, da ritenersi non autorizzabile ed anzi espressamente vietata dall’art.11 del D.P.R. n.382/1990 e dall’art.6, comma 9 della legge. n.240/2010.

Ai fini che qui interessano, occorre poi considerare che l’art.6, comma 10, della legge n.240/2010.

Ne risulta, dunque, un composito sistema in cui, per il docente in regime di tempo pieno: a) alcune attività sono da ritenersi assolutamente incompatibili (attività libero professionali abituali); b) altre attività sono esercitabili a condizione di ottenere specifica autorizzazione preventiva da parte dell’Ateneo di appartenenza (art. 6, c. 10, secondo periodo, della legge 35 n. 240/2010); c) altre ancora, infine, sono liberamente esercitabili, e, tra esse, per quanto qui rileverà ai fini del decidere, le “attività di collaborazione scientifica e di consulenza” di cui all’art. 6, c. 10, l. n. 240/2010. 

Tuttavia, nell’ambito di tali ultime attività assumono rilevo, stante l’eccezionalità della previsione che le contempla, rispetto al regime generale di divieto, esclusivamente le consulenze di natura strettamente ed essenzialmente “scientifica”, caratterizzate da altissima specializzazione e tali da non essere finalizzate alla soluzione di problematiche concrete.

Sotto diverso punto di vista, il Collegio concorda con quanto indicato dalla Procura erariale in ordine alla riconducibilità di tutti gli incarichi contestati in citazione – e dunque anche di quelli che hanno avuto, a partire dall’anno 2013 una parvenza di autorizzazione da parte dell’Università – ad una complessiva attività professionale del convenuto, come tale non autorizzabile in sé, e comunque svolta, a partire dal medesimo anno, sulla base di richieste non conformi alla reale essenza degli incarichi espletati. A tal fine il Collegio ritiene di poter condividere la ricostruzione effettuata dalla Procura erariale, evidenziata anche nel corso della discussione orale della causa, secondo la quale, dopo il passaggio del Prof. X dal regime a tempo determinato a quello di tempo pieno, egli continuò l’esercizio della sua attività professionale occultandola all’Amministrazione di appartenenza, per quanto sia evidenziato dagli atti che in una seconda fase, a partire dal 2013, la stessa fosse stata occultata solo parzialmente all’Università, in quanto, per lo più, egli effettuò richieste di autorizzazione tardive o solo parziali o comunque incongrue rispetto alla portata dell’attività da svolgere che, ove, correttamente indicata all’Amministrazione, avrebbero disvelato la prosecuzione delle attività del suo studio professionale.

In tal senso depongono, anzitutto, i chiari indici individuati nell’atto di citazione in merito all’esistenza di uno studio professionale latamente inteso come attività del singolo professionista, ovvero il mantenimento di una struttura, per quanto basilare, finalizzata allo svolgimento organizzato della sua attività.

Si allude cioè: i) al mantenimento della partita IVA, indice comunque nella volontà del professionista di voler continuare ad agire nel sistema fiscale della libera professione; ii) al mantenimento di una sede fiscale in Sassari, diversa rispetto a quella di esercizio della professione in Venezia, presso il suo domicilio, e la prospettazione, a seconda delle necessità, di una sede ulteriore in Padova, quand’anche si potesse trattare di un semplice “recapito”, come viene indicato dalle stesse deduzioni di parte convenuta; Per quanto sopra si ritiene che, preso a riferimento l’importo di euro 179.222,95, di cui al differenziale retributivo tra la posizione di docente a tempo pieno e docente a tempo definito, come accertato dalle indagini della Guardia di Finanza allegate in atti e richiamato in citazione, il danno da lesione di esclusività, tenuto presente il lungo periodo di esercizio della professione incompatibile, la continuità e la ripetitività delle prestazioni effettuate dal convenuto, possa equitativamente determinarsi nella misura del 50% di tale importo e debba dunque essere determinato nella somma di euro 89.611,47, oltre interessi di legge a far data dal deposito della presente sentenza.

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