Nel pubblico impiego non esiste un principio di irripetibilità dell’indebito (nemmeno dopo sentenza CEDU), e il diritto della PA si prescrive in dieci anni (fattispecie in materia di assegno ad personam)

TAR Lazio, sentenza n. 15402 dell’11 ottobre 2023

Un Viceprefetto, una volta assunto dall’Ateneo, aveva ottenuto l’attribuzione di un assegno ad personam, in ragione del trattamento retributivo goduto quale Viceprefetto aggiunto presso il Ministero dell’Interno prima della sua nomina a ricercatore universitario. Tale assegno è stato abrogato ad opera della legge n. 147/2013, allorquando l’Università adottava pertanto l’impugnato provvedimento di revoca e chiedeva la restituzione degli arretrati.

Il Collegio ha prima ricordato che la giurisprudenza in materia di ripetizione di indebito nel pubblico impiego ha sempre affermato la regola generale dell’art. 2033 cc., escludendo che la semplice buona fede del beneficiario possa legittimare, di per sé, una soluti retentio del trattamento economico così ricevuto, potendo piuttosto rilevare ai fini del temperamento dell’onerosità del recupero operato dall’Amministrazione.

Sebbene non siano mancate, anche di recente, pronunce del giudice amministrativo che, valorizzando le specifiche connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie dedotte in giudizio, hanno escluso volta per volta la ripetizione (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione Seconda, sentenza n. 5014/2021 e giur. ivi richiamata; idem, sentenza n. 1373/2022; Tar Palermo, sentenza n. 2087/2023), non può per ciò solo affermarsi la vigenza di un generale principio di irripetibilità delle somme indebitamente corrisposte a fronte di un affidamento maturato dal percettore, né detto principio è stato sancito dalla giurisprudenza CEDU richiamata dalla difesa, in particolare con la sentenza Casarin dell’11 febbraio 2021.

Con questa pronuncia, la Corte di Strasburgo invero, una volta specificati i presupposti che consentono di identificare un affidamento legittimo in capo all’accipiens (i.e., pagamento effettuato dall’amministrazione spontaneamente ovvero su domanda del dipendente in buona fede; apparenza del titolo del pagamento; durata nel tempo dei versamenti; assenza della riserva di ripetizione; buona fede del ricevente), ha piuttosto stigmatizzato la sproporzione dell’interferenza rispetto a detto affidamento – evidenziandone le ulteriori condizioni, quali l’esclusiva imputabilità all’amministrazione dell’errore del pagamento, la natura del versamento indebito quale corrispettivo dell’attività lavorativa ordinaria e la situazione economica del ricevente al momento della domanda di rimborso – pur sempre riconoscendo la legalità dell’ingerenza e la legittimità del suo scopo.

La Corte EDU ha quindi riscontrato la violazione dell’art. 1 Prot. add. CEDU alla luce delle particolari circostanze del caso concreto e delle condizioni di fragilità economico personali dell’accipiens.

In altri termini, come ben evidenziato dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 8 del 2023, la pur doverosa considerazione dell’affidamento legittimo dell’obbligato e delle sue condizioni economiche, patrimoniali e personali non impone di «generalizzare un diritto alla irripetibilità della prestazione».

Di conseguenza, alla luce di quanto sopra e valutato quanto già in atti, questo Collegio non ravvisa alcuna illegittimità nei termini censurati dalla parte, non risultando la pretesa restitutoria azionata dall’Università sproporzionata e oltremodo onerosa per il ricorrente, in violazione dell’art. 1 Prot. add. CEDU, tenuto in particolare conto della rateizzazione del recupero mediante trattenute mensili di importo lordo pari a €840,00 euro nel limite del quinto stipendiale – come dichiarato nelle note dell’Ateneo prodotte dal ricorrente e non contestate – e dell’assenza di specifiche criticità nella situazione patrimoniale dell’interessato ovvero di sue particolari fragilità.

L’attuazione dell’obbligazione restitutoria, come risultante nel caso in esame, non compromette seriamente la capacità del ricorrente di far fronte ai propri bisogni essenziali e incomprimibili – condizione che invece avrebbe potuto giustificare, alla stregua delle coordinate individuate sub. 4.6., l’inesigibilità della prestazione.

Quanto alla prescrizione quinquennale dei ratei, anche a prescindere dall’irritualità della domanda avanzata per la prima volta nelle note d’udienza, l’assunto va disatteso in ragione del termine di prescrizione decennale dell’azione di ripetizione: va infatti tenuta distinta la posizione del lavoratore che può agire per ottenere quanto dovuto per le proprie prestazioni nel termine di cinque anni previsto dall’art. 2948, n. 4, c.c. per i pagamenti periodici, da quella in cui lo stesso dipendente ha ottenuto somme non dovute, il che giustifica l’applicazione del diverso regime della prescrizione ordinaria decennale (in tal senso, anche Cons. Stato, sentenza n. 97/2021).

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