Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, sentenza n 288 del 10 novembre 2020
La vicenda è relativa alle progressioni economiche orizzontali attribuite ai dipendenti di un Comune italiano dal 2007 in poi, con la sola condizione che i dipendenti non dovevano avere avuto una valutazione negativa.
Inoltre, il Comune, che aveva subito nel 2009 una verifica ispettiva, attivava nel 2014 l’istituto previsto dall’ art. 4 del decreto legge 6 marzo 2014, n. 16, inteso dai più come una sorta di condono per gli illegittimi emolumenti derivanti dalla contrattazione integrativa.
Vediamo in particolare: come evidenziato nella relazione ispettiva del M.E.F. del 2009, il C.C.D.I. del 2000 ha previsto le modalità di svolgimento del sistema delle P.E.O. anche negli anni successivi. Il contratto decentrato era suddiviso in una prima parte, che avrebbe dovuto rivestire carattere provvisorio (avendo introdotto per la prima volta l’istituto delle P.E.O.) ed in una seconda parte che disciplinava l’erogazione delle P.E.O. “a regime”, basato su una valutazione permanente dei dipendenti. L’entrata in vigore del sistema a regime è stata posticipata, di volta in volta, dai contratti collettivi decentrati che si sono succeduti nel tempo (il C.C.D.I. del 15/04/2003, il C.C.D.I. del 29/12/2005, il C.C.D.I. del 28/05/2009) e, infatti, al momento della prima relazione M.E.F. non era stato ancora concretamente attuato.
L’attribuzione delle progressioni economiche, quindi, secondo la prospettazione attorea è avvenuta direttamente dalla clausola contrattuale decentrata, cui non è seguito un percorso valutativo individuale.
Nel frattempo il sindaco del Comune diventa Presidente del Consiglio il 25 febbraio 2014, e, in considerazione della “straordinaria necessità ed urgenza di adottare disposizioni in materia di finanza locale, misure volte a consentire il superamento di situazioni di crisi finanziaria degli enti territoriali, nonché per garantire l’equilibrio di bilancio e la stabilità finanziaria dei medesimi”, il Governo emana il decreto-legge 6 marzo 2014, n. 16.
Tale decreto prevede all’art. 4 quella che viene percepita dai più come una “sanatoria” della contrattazione integrativa.
Il Collegio ha puntualizzato che la norma, sostanzialmente, da un lato, ha la finalità di correggere per il futuro i fondi di bilancio destinati al salario accessorio, attraverso una rettifica degli stanziamenti utilizzati in passato ed un recupero delle eventuali somme conferite in eccesso attraverso un sistema di riassorbimento, diluito nel tempo, sulle risorse da destinarsi ai medesimi fini per gli anni a venire e, dall’altro, di escludere la ripetibilità delle somme suddette nei confronti dei singoli percettori, stante l’esplicita esclusione della applicazione dell’istituto nullità per tutti gli atti di disposizione posti in essere, in violazione dei limiti di legge, entro il 31 dicembre 2012.
L’attore pubblico, anche alla luce delle indicazioni contenute nella relazione redatta dalla Guardia di Finanza nel 2019, ha ritenuto di poter sottrarre dall’ammontare del presunto danno contestato nel 2013, l’intero importo che risulta essere stato inserito nel piano di recupero, chiedendo la restituzione unicamente di quanto erogato in eccedenza. I convenuti hanno sollevato eccezione di improcedibilità dell’azione contabile, stante l’avvenuta approvazione ed esecuzione del piano di recupero, ritenendo eventualmente responsabili, con interruzione del nesso di causalità per gli odierni convenuti, per le somme ancora eccedenti il piano di recupero, coloro che ebbero ad approvare il piano medesimo, dal momento che non hanno tenuto conto del reale ammontare del danno. Sempre secondo i dirigenti convenuti in ogni caso l’azione di responsabilità amministrativa sarebbe preclusa, dall’esclusione della applicazione della sanzione della nullità per gli atti di disposizione posti in essere in violazione della contrattazione nazionale sino al 31 dicembre 2012.
Il Collegio, però, ha ritenuito di aderire a quell’indirizzo giurisprudenziale (Corte conti Veneto 98/2015; Corte conti Sicilia 157/2020) in virtù del quale l’azione erariale non può ritenersi preclusa dall’avvenuta approvazione dalla parte del Governo del decreto-legge n. 16 del 6 marzo 2014, art. 4. Anche dalla lettura del testo normativo, infatti, si apprende come il legislatore abbia voluto definire con urgenza “un percorso guidato per recuperare in via graduale le somme attribuite al di fuori dei vincoli economici e normativi prescritti per la contrattazione integrativa” (v. Circolare relativa alle modalità attuative dell’art. 4 del decreto legge 6 marzo 2014, n. 16 del 12 maggio 2014), senza pensare minimamente di poter dettare le regole per le ipotesi di responsabilità erariale eventualmente emergenti prevedendo, quindi, una sorta di “amnistia contabile”.
Il possibile recupero, attraverso modalità alternative, di quanto in passato illegittimamente speso, non esclude il giudizio sulla responsabilità di coloro ai quali potrebbero ricondursi gli atti autorizzativi degli esborsi illegittimi, posti in essere con dolo o colpa grave, stante la particolare natura restitutoria e, al contempo, sanzionatoria, che caratterizza il processo innanzi alla Corte dei conti. Voler ridurre lo scopo dell’attività del Giudice contabile al mero “recupero delle somme costituenti danno erariale, finirebbe per ignorare la complessa fisionomia della responsabilità erariale, la cui attuale conformazione, si “articola secondo linee volte, tra l’altro, ad accentuarne i profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori “(Corte costituzionale, sent. n. 453 del 30.12.1998)”, e ciò lo si può dedurre da diversi elementi quali l’obbligatorietà dell’azione contabile ad iniziativa del PM, il carattere personale dell’azione e l’intrasmissibilità agli eredi nonché il potere del giudice di ridurre l’addebito (v. Corte conti I appello 15/2003).
L’azione contabile, pertanto, non si esaurisce nel diritto di credito dell’amministrazione danneggiata, ma ha come scopo, non è tanto e non solo, il semplice ripristino degli equilibri finanziari attraverso la soddisfazione del credito erariale, ma è volta soprattutto ad assicurare che le pubbliche risorse siano spese in modo tale da assicurare il rispetto del fine pubblico cui sono destinate.
Ne deriva, pertanto, che il piano di recupero in corso non ha lo scopo di “condonare” gli eventuali illeciti erariali sottostanti, ma unicamente quello di rimodulare le modalità qualitative e quantitative di costituzione dei fondi dei fondi destinati al salario accessorio, disponendo il riassorbimento graduale di quanto stanziato in eccesso.
Inoltre l’istituto della nullità, di cui all’art. 40 comma 3 quinquies decreto legislativo. 165/2001, non è mai stato inteso come alternativo rispetto all’azione di responsabilità erariale che parallelamente, al ricorrere dei presupposti di legge, poteva eventualmente essere azionata (v. Corte conti Veneto n. 98/2015).
Alla luce di quanto sin qui affermato il Collegio ha respinto l’eccezione di improcedibilità dell’azione contabile per l’avvenuta approvazione ed esecuzione del piano di recupero di cui all’art. 4, comma 1, decreto-legge n. 16 del 6 marzo 2014.