TAR Lazio, sentenza n. 7625 del 17 aprile 2025
Appare illegittimo l’oscuramento tout court di tutti i dati personali contenuti nelle sentenze pubblicate e rese accessibili tramite b.d.p.
Fermo restando che, come provato dall’amministrazione resistente, il sistema informatico è ancora in fase di perfezionamento, sicché è ben possibile che vengano eliminate col tempo le paradossali situazioni evidenziate in ricorso (come l’oscuramento della data del provvedimento in consultazione o dei precedenti giurisprudenziali citati), si ritiene comunque contrario al disposto degli artt. 51 e 52 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, la completa anonimizzazione delle sentenze.
Peraltro, considerato che la creazione della banca dati di merito è direttamente imposta da una milestone del Pnrr inerente alla digitalizzazione della giustizia, risulta doveroso per l’amministrazione resistente (al fine di ottemperare agli impegni assunti in sede europea) procedere alla realizzazione di un’architettura informatica che garantisca alla generalità dei cittadini l’accesso alle pronunce giurisdizionali.
Quanto alle modalità con cui garantire la fruizione dei contenuti della banca dati, è prescritto unicamente il rispetto della legislazione vigente: il che lascia quindi aperta la strada a varie opzioni purché funzionali al raggiungimento dello scopo per il quale si è creata la banca dati.
Date tali premesse, il Collegio ritiene di non poter considerare ragionevole, proporzionata o necessaria la decisione di anonimizzare tutti i provvedimenti pubblicati nella b.d.p. Invero, se l’obiettivo è garantire la diffusione della cultura giuridica, rendendo conoscibili gli indirizzi ermeneutici giurisprudenziali che, sebbene non vincolanti, possono guidare l’azione degli operatori giuridici, risulta chiaro che oscurare totalmente le informazioni circa alcuni dati di fatto rende, sostanzialmente, impossibile (o comunque assai complesso) comprendere l’esatta portata del pronunciamento.
Sotto tale riguardo non può essere condivisa la tesi della parte resistente secondo cui l’oscuramento, coinvolgendo solamente i dati personali, non priverebbe di utilità la consultazione della banca dati. Premesso, in linea generale che il confronto con le altre banche dati istituzionali (es. quelle della giustizia amministrativa o della Corte di cassazione) dimostra come non sia obbligatorio oscurare in maniera generalizzata i provvedimenti, va rilevato come la mancata pubblicazione integrale è sicuramente incidente sull’esatta intellegibilità della sentenza: a tal fine, infatti, vale osservare come un dato personale può essere inserito dall’estensore in qualsiasi parte della sentenza, anche nel principio di diritto espresso (nel caso, non meramente ipotetico pur trattandosi di pronunce di merito, di redazione di un tale paragrafo).
In ogni caso, anche accedendo alla tesi dell’amministrazione secondo cui l’oscuramento inciderebbe sulla parte «in fatto», va rilevato – richiamando l’antico brocardo da mihi factum, dabo tibi ius – che per intendere la portata di una pronuncia giurisdizionale è doverosa l’esatta definizione della vicenda fattuale: in assenza dalla comprensione di quest’ultima, infatti, il ragionamento giuridico si presenterebbe totalmente speculativo, divenendo oggetto d’interesse puramente teoretico.
Viceversa, considerato che la finalità perseguita con la creazione della b.d.p. è di natura pratica, diffondendo la conoscenza degli orientamenti pretori, onde evitare il contezioso e rendere piú rapide le decisioni (si veda in tal senso quanto indicato nella convenzione tra il Ministero e l’associazione italiana degli editori – Aie), risulta di assoluta necessità favorire la comprensione della vicenda concreta: difatti, solo in tal modo è possibile procedere effettivamente ad un’operazione interpretativa di distinguishing. D’altro canto, l’eventuale mancata chiara percezione del fatto potrebbe determinare lo sviluppo di un ragionamento, da parte del difensore, in realtà antitetico rispetto a quello espresso nel precedente giurisprudenziale, pregiudicando in tal guisa gli interessi dell’assistito.
Quanto appena esposto appare pienamente conforme alla legislazione applicabile: segnatamente, in questa sede rileva la corretta interpretazione dei già citati artt. 51 e 52 d.lgs. 196/2003 che costituiscono il perno normativo attorno al quale consentire l’accesso alle pronunce raccolte nella banca dati di merito.
La disciplina positiva prevede, in linea generale, la pubblicazione delle pronunce rendendole accessibili a tutti mediante un sistema informativo istituzionale. È poi precisato come la diffusione (ivi compresa quindi anche la pubblicazione in una banca dati accessibile alla generalità dei cittadini) debba avvenire con oscuramento dei dati personali solamente in alcune limitate ipotesi, ossia su richiesta della parte interessata (art. 52, comma 1 d.lgs. 196/2003), oppure d’ufficio allorquando ciò risulti necessario per tutelare i diritti e la dignità dell’interessato (secondo comma). Pertanto, salvo il caso peculiare dei procedimenti coinvolgenti rapporti di famiglia, di stato delle persone ovvero minorenni (quinto comma), ove è direttamente la legge a vietare la diffusione dei dati personali, va osservato come le fattispecie regolate dall’art. 52, commi 1 e 2 d.lgs. 196/2003 rimettano all’autorità giudiziaria procedente la decisione sull’oscuramento o meno dei dati personali: d’altronde, in assenza di determinazione del giudice, la legge ammette espressamente la diffusione del contenuto integrale delle pronunce giurisdizionali (v. art. 51, comma 2 e art. 52, comma 7 d.lgs. 196/2003).
Ed è proprio sull’esatta ermeneusi dell’art. 52, comma 7 d.lgs. 196/2003 che le parti sono in evidente disaccordo, reputando i ricorrenti l’ammissione della diffusione come implicante il divieto di un oscuramento generalizzato; al contrario, l’amministrazione resistente ritiene l’impiego della locuzione «è ammessa» come remissione al gestore della banca dati della concreta individuazione dello standard di tutela dei dati personali trattati negli atti giurisdizionali.
Orbene, il Collegio ritiene che una corretta interpretazione della disposizione de qua non vieti di rendere disponibili i provvedimenti giurisdizionali in forma integrale, salvo i casi in cui sia la legge oppure l’autorità giudiziaria a disporre l’anonimizzazione dei dati personali contenuti nella pronuncia.
In altre parole, il bilanciamento delle opposte esigenze, tutela della privacy dei soggetti coinvolti da un lato, e libero accesso alle pronunce giurisdizionali dall’altro, è rimesso all’autorità giudiziaria (salvo l’ipotesi di cui all’art. 52, comma 5 d.lgs. 196/2003): orbene, al di là dell’esatta qualificazione della decisione del giudice in tema di oscuramento (che si tratti di atto giurisdizionale o amministrativo), va rilevato come sicuramente l’amministrazione incaricata della raccolta in una banca dati dei provvedimenti non possa sostituirsi all’autorità giudiziaria nella valutazione circa la necessità di anonimizzazione. Conseguentemente, l’oscuramento generalizzato disposto dalla pubblica amministrazione non appare legittimo, considerato come essa appare interferire in parte anche con una decisione attribuita all’autorità giudiziaria