In questi giorni ha avuto ampia eco sui quotidiani la sanzione che il Garante Privacy ha comminato ad una società per aver utilizzato i messaggi di Whatsapp e Facebook per licenziare un dipendente; la multa è stata di 420.000 euro.
Come vedremo brevemente in questo post, la posizione del Garante non sempre è stata condivisa dagli organi giurisdizionali, e in subjecta materia stiamo assistendo negli ultimi anni ad una rapida evoluzione della normativa e delle interpretazioni.
Vedremo la posizione del Garante Privacy (che non è sempre stata omogenea nel tempo), dei giudici amministrativi, della Suprema Corte di Cassazione, facendo riferimento anche al Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (nel 2023 modificato sull’argomento) e ad una recente sentenza della Corte Costituzionale in materia affine.
I quesiti che in materia sono emersi nel tempo sono:
- il datore di lavoro può utilizzare i messaggi di una chat privata per sanzionare il dipendente?
- come si coordinano tali attività con il divieto di indagine sulle opinioni dei lavoratori?
- e se tali messaggi sono inoltrati da chi partecipava alla chat?
- i messaggi scambiati su gruppi di Facebook (quindi non accessibili a tutti), sono privati o pubblici?
- valgono le stesse regole per tutti i lavoratori (pubblici e privati, e, tra i lavoratori pubblici, militari e civili)?
Cominciamo dall’ultimo caso esaminato dal Garante Privacy
Un lavoratore era stato sottoposto a procedimento disciplinare per delle opinioni espresse contro il datore di lavoro su gruppi di Facebook e tramite messaggi di Messenger e Whatsapp.
Il Garante è intervenuto, sanzionando la società per 420.000 euro.
In particolare la Società, dopo aver ricevuto – tramite comunicazione su WhatsApp – alcuni screenshot tratti dal profilo Facebook e dagli account Messenger e WhatsApp della reclamante estratti da alcuni partecipanti alle comunicazioni, la cui trasmissione non è dunque addebitabile al datore di lavoro, ha ritenuto di utilizzarli nel procedimento disciplinare, pur senza essersi direttamente attivata per effettuare ricerche presso il profilo social o i canali di messaggistica istantanea.
Qui il Garante ha precisato che,
sebbene la Società non abbia iniziato delle indagini sulla dipendente, avendo solo ricevuto una segnalazione, “l’assenza di un “ruolo attivo” della Società nella ricerca delle informazioni non ha alcun rilievo ai fini della identificazione dell’attività consistente nel successivo utilizzo nel procedimento disciplinare quale “trattamento”, in quanto ne costituisce solo una delle possibili manifestazioni”
In base a quanto rappresentato dalla stessa Società, gli screenshot dei commenti postati sul profilo Facebook sono stati comunicati all’azienda da un dipendente che aveva un rapporto di “amicizia” con la reclamante sul noto social network; da ciò ne deriva pertanto che la visibilità dei contenuti veicolati sul profilo era riservata ai soggetti in rapporto di “amicizia” con la reclamante medesima, che ha quindi inteso escludere volontariamente ed espressamente la generalizzata condivisione dei commenti, al di fuori di tale cerchia di soggetti.
Ciò ha comportato quindi una legittima aspettativa di riservatezza della reclamante sui contenuti condivisi con una cerchia determinata di destinatari, tenuto conto che trattavasi di una comunicazione avvenuta nell’ambito di una chat, su un gruppo chiuso di Facebook, con la conseguenza che l’utilizzo di tali contenuti da parte di un terzo (in questo caso il datore di lavoro) avrebbe necessariamente richiesto l’effettuazione di un previo bilanciamento tra i diritti e gli interessi delle parti coinvolte (v. Cass. sez. lav., 10/9/2018, n. 21965)
L’applicazione del principio di finalità, in ambito lavorativo, comporta quindi la necessità che il datore di lavoro raccolga i dati, riferiti agli interessati, per “finalità determinate, esplicite e legittime” e successivamente li tratti “in modo che non sia incompatibile con tali finalità”.
Pertanto, in termini generali, il titolare può utilizzare, per ulteriori trattamenti, i soli dati personali lecitamente raccolti, in forza di un’idonea base giuridica, dopo aver “soddisfatto tutti i requisiti per la liceità del trattamento originario”, tenendo altresì conto del contesto in cui i dati sono stati raccolti (cfr. cons. 50 del Regolamento), avuto riguardo alla finalità originaria e nel rispetto dei principi generali di protezione dei dati.
I dati personali pubblicati sui social network o, più in generale, disponibili in rete, non possono essere pertanto utilizzati indiscriminatamente e a ogni fine, solo perché accessibili a un numero più o meno esteso di persone.
In proposito, l’Autorità ha già stabilito, in passato, in relazione a un caso concreto relativo all’ambito lavorativo, che la pubblicazione di informazioni da parte dell’interessato su un sito web, accessibile da chiunque, non può di per sé, giustificare il trattamento della medesima informazione, in funzione di qualsiasi altro trattamento, posto che è, in primo luogo, necessario tener conto dei limiti posti da discipline di settore applicabili alle diverse materie (v. Provv. 24/4/2024, n. 268, doc. web n. 10021491..
L’ultimo provvedimento citato dal Garante ha riguardato un caso di un dipendente che aveva diffuso la propria immagine in rete – e più specificatamente su un sito di incontri […] offrendo prestazioni sessuali dietro ricompensa. Anche qui il Garante aveva dichiarato l’illiceità del trattamento dei dati personali effettuato dal Ministero della Giustizia.
Ricordiamo che a tutti i datori di lavoro (ex. art. 8 L 300-1970) è fatto divieto di “effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. E’ per questo motivo che il datore di lavoro, nel caso in esame, ha sottolineato che non aveva avuto un “ruolo attivo” (cioè non aveva svolto nessuna indagine sulle opinioni), ma aveva semplicemente ricevuto una segnalazione da un altro dipendente. Ma in merito il Garante ha precisato che l’assenza di un “ruolo attivo” della Società nella ricerca delle informazioni non ha alcun rilievo.
La pronuncia del giudice amministrativo su un caso che riguardava personale militare
Ora spostiamoci a vedere un altro caso analogo esaminato dal TAR (Tar Sardegna, sentenza n. 174 del 14 marzo 2022)
In quell’occasione il giudice amministrativo aveva ritenuto legittimo il comportamento del datore di lavoro, in particolare sostenendo che non sono pertinenti i principi di libertà e segretezza della corrispondenza, sanciti dall’art. 15 Cost., che sì ne precludono agli estranei la cognizione e la rivelazione come previsto dagli artt. 616 e 617 c.p., ma non sono invocabili laddove il datore di lavoro abbia conosciuto il contenuto della comunicazione non in violazione delle predette norme, bensì per la rivelazione che il partecipante alla comunicazione ne abbia fatto. Invero, per i partecipanti alla conversazione, non vige alcun divieto di rivelazione né di divulgazione.
Quindi questa pronuncia è di segno totalmente opposto al parere reso dal Garante che abbiamo sopra esaminato (per completezza, non risulta proposto appello).
Due aspetti dobbiamo sottolineare, però: il primo aspetto è che trattasi di un militare, il cui codice di comportamento è più stringente rispetto ad un impiegato civile. Il secondo aspetto è che trattasi di una decisione del 2022, cioè prima della sentenza n. 170/2023 della Corte Costituzionale, che tra poco esamineremo.
La sentenza n. 170/2023 della Corte Costituzionale
La sentenza in argomento ha definito un principio molto importante su una materia su cui la giurisprudenza non era totalmente concorde.
In particolare la Corte Costituzionale ha affermato che lo scambio di messaggi elettronici – e-mail, SMS, WhatsApp e simili – rappresenti, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost. non può essere revocato in dubbio.
Il problema, però, è un altro: stabilire, cioè, se mantengano la natura di corrispondenza anche i messaggi di posta elettronica e WhatsApp già ricevuti e letti dal destinatario, ma conservati nella memoria dei dispositivi elettronici del destinatario stesso o del mittente (come quelli di cui si discute nella specie). Ed è su questo specifico punto che le parti prospettano tesi radicalmente contrapposte.
L’interrogativo rievoca, in effetti, il risalente dibattito circa i limiti temporali finali della tutela accordata dall’art. 15 Cost.: dibattito che ha visto emergere due distinte correnti di pensiero, che le parti richiamano – ciascuna quanto a quella di suo interesse – a sostegno dei rispettivi assunti.
In base ad un primo indirizzo, su cui fa leva il ricorrente nelle sue difese, la tutela – iniziata nel momento in cui l’espressione del pensiero è affidata ad un mezzo idoneo a trasmetterlo, rendendo così fattivo l’intento di comunicarlo ad altri – non si esaurirebbe con la ricezione del messaggio e la presa di cognizione del suo contenuto da parte del destinatario, ma permarrebbe finché la comunicazione conservi carattere di attualità e interesse per i corrispondenti. Essa verrebbe meno, quindi, solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in un documento “storico”, cui può attribuirsi esclusivamente un valore retrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.
Secondo altra concezione, invece – cui si richiama la resistente – la corrispondenza già ricevuta e letta dal destinatario non sarebbe più un mezzo di comunicazione, ma un semplice documento. La garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. si giustificherebbe, infatti, con la particolare “vulnerabilità” dei messaggi nel momento in cui sono “corrisposti”, per il maggior rischio di captazione o apprensione da parte di terzi: essa cesserebbe, quindi, con l’esaurimento dell’atto del corrispondere, coincidente con il momento in cui il destinatario prende cognizione della comunicazione. Dopo tale momento, la corrispondenza resterebbe tutelata, non più dall’art. 15 Cost., ma da altre disposizioni costituzionali, quali quelle in materia di libertà personale e domiciliare, libertà di manifestazione del pensiero, diritto di difesa o diritto di proprietà.
Analogamente all’art. 15 Cost., quanto alla corrispondenza della generalità dei cittadini, anche, e a maggior ragione, l’art. 68, terzo comma, Cost. tuteli la corrispondenza dei membri del Parlamento – ivi compresa quella elettronica – anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”.
Quindi la Corte Costituzionale ha ribadito che la corrispondenza, di cui i messaggi Whatsaspp fanno parte, non perde il carattere privilegiato e la tutela di cui all’art. 15 della Costituzione con il decorso del tempo, e, quindi, mantiene il carattere di riservatezza, e non può essere raccolto e/o utilizzato da soggetti terzi a cui il messaggio non era destinato.
Tale principio, seppur espresso in riferimento alla corrispondenza di un parlamentare e nell’ambito penalistico, può trovare la propria attualità anche in campo civilistico per la generalità dei cittadini.
La posizione della Corte di Cassazione (dopo la sentenza della Corte Costituzionale).
La trasposizione dall’ambito del diritto penale a quello del diritto civile del principio di cui sopra, è stato operato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 5936 del 6 marzo 2025 (di identico tenore anche 5334/2025). La Suprema Corte ha infatti ricordato che Nella sentenza n. 170 del 2023 la Corte cost. ha richiamato il dibattito, anche giurisprudenziale, sui limiti temporali finali della tutela assicurata dall’art. 15 Cost. ed ha concluso che tale disposizione garantisce alla generalità dei cittadini, così come l’art. 68 Cost. ai membri del Parlamento, la libertà e la segretezza della corrispondenza «anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”»; ciò sempre in accordo con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sopra citata) che ha ricondotto alla nozione di «corrispondenza» tutelata dall’art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”, ossia già avvenuti (in tal senso v. anche Cass. pen., n. 25549 del 2024).
Ha quindi affermato che è indubbio che la condotta contestata in via disciplinare al C. rientri nel raggio di protezione dell’art. 15 Cost., atteso che il messaggio è stato inviato a persone determinate, facenti parte della chat ristretta di taluni colleghi di lavoro, e le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione adoperato, WathsApp, riflettono in modo inequivoco la volontà della mittente di escludere terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito di segretezza della corrispondenza. ….
E da ciò discende che la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.
Il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici
In medio tempore è stato inoltre pubblicato il DPR 13 giugno 2023 n. 81, che ha introdotto nel codice di comportamento dei pubblici dipendenti l’art. 11-ter rubricato Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media
Ora tali disposizioni si devono leggere alla luce dei pronunciamenti sopra citati, poichè non tutte le piattaforme digitali sono uguali, anzi in diverse piattaforme (Whatsapp, Facebook, Telegram, ecc…) spesso è possibile circoscrivere il numero dei destinatari dei messaggi scritti, con la conseguente applicabilità delle considerazioni di cui sopra.
Il parere del Garante del 1999
Spesso dai datori di lavoro è stato citato un parere dello stesso Garante della protezione dei dati personali, datato 12 luglio 1999, in cui affermava che analogamente a quanto avviene per la normale corrispondenza, non può essere considerata contrastante con la normativa sui dati personali l´eventuale successiva presa di conoscenza della e-mail da parte di soggetti estranei al circuito di posta elettronica, quando il messaggio non sia stato indebitamente acquisito da questi ultimi ma ad essi comunicato da parte di uno dei destinatari del messaggio stesso.
Tale posizione, quindi, era radicalmente diversa da quella espressa con l’ultimo provvedimento
Considerazioni finali
Come si è visto ampiamente, è una materia in forte evoluzione, e non sempre i vari soggetti che sono chiamati ad applicarla hanno avuto interpretazioni omogenee e costanti nel tempo.