Responsabilità del Comune e dell’ASL per il morso di un randagio

Corte di Cassazione, sentenza n. 16788 del 23 giugno 2025

Va ribadito, ad abundantiam, che l’art. 2052 c.c. è stato ritenuto da questa Corte applicabile ai danni causati dalla fauna selvatica in base al presupposto che questa sia un bene da proteggere in virtù di precisa scelta legislativa e di assunzione – con essa – delle connesse funzioni, sicché l’ente che ne ha la protezione, ne ha anche la responsabilità.

Rispetto ai cani randagi, invece, i compiti della pubblica amministrazione sono essenzialmente di prevenzione e non di protezione; di tutela della popolazione dagli animali e non di tutela degli animali dai rischi dell’antropizzazione: i cani randagi non possono, quindi e allo stato attuale della legislazione, definirsi una specie protetta. La diversità di ratio della normativa impedisce dunque l’applicabilità sia diretta, sia analogica, dell’art. 2052 c.c. ai danni causati da cani randagi. 

In base alla suddetta legge, infatti, i Comuni devono limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera “accoglienza” dei cani randagi recuperati, mentre al relativo “ricovero”, che presuppone l’attività di recupero e cattura, sono tenuti i servizi veterinari delle ASL (Cass., Sez. 3, ord. 2/1/2024, n. 10; Sez. 3, sent. 28/06/2018, n. 17060; Sez. 3, ord. 26/05/2020, n. 9671), sicché deve escludersi la passiva legittimazione del Comune. 

Il contenzioso scaturente dai danni causati da cani randagi è fenomeno relativamente recente nella giurisprudenza di legittimità. La prima decisione di legittimità in tal senso risale infatti a Sez. 3, Ordinanza n. 13898 del 28.6.2005, quando negli ottant’anni precedenti non è dato riscontrare precedenti massimati. Negli ultimi vent’anni, invece, il fenomeno ha assunto dimensioni ragguardevoli: dal 2005 ad oggi questa Corte ha deciso 113 ricorsi aventi ad oggetto danni causati da cani randagi; il fenomeno inoltre appare singolarmente concentrato in quattro Regioni (in ordine di frequenza: Calabria, Puglia, Campania e Sicilia). 

Nell’affrontare tale contenzioso questa Corte ha chiarito innanzitutto che:

a) per stabilire quale sia l’ente tenuto a prevenire il randagismo occorre fare riferimento alla legislazione regionale;

b) la responsabilità della pubblica amministrazione è disciplinata dall’art. 2043 c.c. (ex multis, Cass. 5339/24; Cass. n. 17060 del 2018 e 9671 del 2020, Cass. n. 19404 del 2019 e Cass. n. 32884 del 2021).

Ciò implica che non è possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell’ente cui la normativa nazionale e regionale affida in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, in mancanza della puntuale allegazione e della prova, il cui onere spetta all’attore danneggiato in base alle regole generali, della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e nella specie omessa”).

Pretendere, come fa l’odierna ricorrente, che “la circostanza di fatto che il cane fosse libero dimostrerebbe di per sé che il predetto servizio di prevenzione del randagismo non era stato espletato in modo adeguato dal comune” significherebbe introdurre una responsabilità oggettiva (Cass. 36719/21), non giustificabile in base alla lettera ed allo spirito della legge.

Il ricorso va dunque rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: “la responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi è soggetta alle regole dell’art. 2043 c.c.; pertanto, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito. La colpa della pubblica amministrazione non può tuttavia essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, ma esige la dimostrazione della insufficiente organizzazione del servizio di prevenzione del randagismo. Solo una volta fornita questa prova, il nesso di causa tra condotta omissiva e danno potrà ammettersi anche ricorrendo al criterio c.d. della concretizzazione del rischio (il quale è criterio di spiegazione causale, e non di accertamento della colpa), in virtù del quale il fatto stesso dell’avverarsi del rischio che la norma violata mirava a prevenire è sufficiente a dimostrare che una condotta alternativa corretta avrebbe evitato il danno”.

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